Cos’è un festival?
In un contesto come quello italiano, perimetrare questa parola risulta esercizio complesso.
Forse il provincialismo italiano tende a definire festival eventi musicali che spesso si limitano a una serie di live con line-up composte da artisti in voga al momento o che la critica porta in auge.
Da 18 anni il nostro lavoro è quello di creare un qualcosa di più esperienziale che origina proprio in una città di provincia e si articola in un processo di ricerca musicale e non solo.
La diciottesima edizione del Barezzi ha segnato un punto importante, un’attestazione del lavoro fatto fino ad ora ma anche un ambizioso rilancio di visione.
In questa direzione va il Barezzi Lab, in origine il seme del nostro festival, che quest’anno si è strutturato in maniera più organica.
Artisti in erba si sono avvicendati sul palco mattutino proponendo la loro musica con l’unico requisito di reinterpretare un brano di Verdi assegnato loro da una giuria capeggiata dal maestro e compositore Alessandro Nidi.
La novità che abbiamo voluto in questa edizione è stata quella di offrire al vincitore di ogni giornata l’opportunità di aprire i live internazionali della serata.
Questo è un nostro primo tentativo pratico di rispondere alla domanda di cui sopra.
Un festival, il nostro, che vuole essere un happening con l’intento di creare un contenitore in cui si incontrano e si confrontano esperienze e derivazioni umane e musicali, in cui tutto può accadere.
Incroci di anime e intrecci di sonorità, di esperienze che umanizzano un evento artistico in una cornice genuina di piccola città.
Un ritrovo in cui il luogo con i suoi contesti, le sue convenzioni (per 3 giorni Parma ma con il Barezzi Way anche altri capoluoghi Emilia) armonizzano arte e vite creando una connessione tra artisti, pubblico e ambienti.
Alla luce di quanto detto, alla soddisfazione per i sold-out di ogni singolo live si aggiungono episodi e aneddoti che vale la pena rendere noti.
In questa edizione abbiamo compreso quanto questa realtà arrivi in maniera sorprendente agli artisti che ne prendono parte.
Era il 19 ottobre e il Barezzi Way fa tappa in una Bologna che si scopre fragile sotto un diluvio quasi biblico. I Lankum arrivano in un teatro allagato e senza alcuna polemica o capriccio artistoide tolgono le scarpe e tirano su i pantaloni per recuperare gli strumenti nel backstage.
La voglia di suonare supera le avversità e mezzi bagnati affrontano un live a piedi nudi.
Va detto qualche rischio di ordine elettrico forse era stato da loro sottovalutato ma grazie a questo si è potuto apprezzare la generosità di questi cantori del neo-folk irlandese.
I dEUS raccolgono consenso a Piacenza, una città spesso a secco di eventi e che si riscopre rockettara riempiendo il teatro.
In fondo forse la provincia non è poi cosi “provinciale”!
Anna B Savage e Josè Gonzalez che performano in maniera quasi ascetica e spirituale ma che si pongono empaticamente con le maestranze e con lo staff.
Gonzalez imponente e deciso nel live, nel camerino mostra tutta la sua semplice autenticità quando lo si vede ascoltare da una radiolina anni ’50 una trasmissione argentina come defatigamento post live. Ci dice inoltre di avere una nonna catanese.
Ma l’artista che più ha mostrato il suo lato umano, seppur nella sua austera figura, è stato Sun Kil Moon. Si è inaspettatamente concesso in racconti e vicende personali in un tono inedito per la sua postura.
Con tre aneddoti Mark Kozelek ha riassunto inconsapevolmente la concezione e la visione del Barezzi Festival.
Erano gli anni ’90 e racconta di assistere a un concerto dei Jesus & Mary Chain. A suo avviso è il live che gli ha cambiato la vita. Lo descrive come fallimentare perché per problemi tecnici il concerto dura un brano e mezzo, che la band abbandona il palco piccata ed è proprio lì che percepisce la potenza di chi la musica la fa senza compromessi.
Poi narra di un suo concerto a Göteborg alla fine del quale si avvicina un adolescente sedicenne e dopo averlo lodato gli muove una critica sulla posizione della mano destra sulla chitarra.
Certo conoscendo il temperamento di Mark questo giovane ha rischiato molto, ma da lì nasce una grande amicizia e anche un confronto duraturo nel tempo.
Quel fanciullo era Josè Gonzalez che lo stesso Mark definisce un grande artista, oggi più famoso di lui e confessa di ritrovare con piacere nel nostro cartellone.
Infine parla di quando all’inizio della sua carriera un promoter texano gli piazza una serie di serate e segna il suo lancio come cantautore.
Per dirla con un parallelismo diacronico una sorta di Barezzi texano per un giovane Verdi dell’Ohio.
Insomma cos’è un festival ci chiedevamo.
Forse è tutto questo, è l’incrocio di artisti con altri artisti, di umanesimo con la tecnica, di esperienze con i luoghi.
Il tutto in divenire, in una costruzione velleitaria ma di sicuro romantica.
Ecco il racconto in immagini di questa edizione: